METTERE DIO AL CENTRO

Parole di Benedetto XVI alla Chiesa in Svizzera


Dal 7 al 9 novembre 2006 Papa Benedetto XVI ha incontrato, a conclusione della loro Visita ad limina, i vescovi svizzeri. In questo volume sono raccolte le sue parole accompagnate da alcuni commenti. Viene così messo in luce come il Papa, pur accennando a questioni particolari, proprie della Chiesa in Svizzera, abbia chiaramente voluto sottolineare l'importanza di "mettere Dio al centro" di ogni impegno ecclesiale.
Ciò si traduce nella priorità della fede, nella necessità del rapporto personale con Gesù Cristo, nel modo di intendere la liturgia e di affrontare le grandi questioni morali e pastorali del nostro tempo.

SOMMARIO

L'importanza del rapporto personale con Dio
Dom Mauro Giuseppe Lepori O.Cist.

All'origine: un invito totalmente gratuito

Un invito disprezzato

La via del rinnovamento: ripartire dall'esperienza di Dio

Imparare e insegnare a pregare

Per un cristianesimo lieto: la speranza

 

L'importanza del rapporto personale con Dio - «Io sono con te»

Leggendo l’omelia e i discorsi che il Santo Padre ha tenuto ai Vescovi svizzeri in Visita ad limina nel novembre 2006, mi è venuta alla mente la scena della vocazione di Mosè (Es 3,7-12). Il Signore appare a Mosè nel roveto ardente e gli esprime subito la ragione del suo manifestarsi: «Ho osservato la miseria del mio popolo… Sono sceso per liberarlo…». Poi, di colpo, Dio lancia a Mosè un ordine, che è la sua vocazione, come se scoccasse una freccia che non ammette il minimo errore nel colpire il suo bersaglio: «Ora va’! Fa’ uscire dall’Egitto il mio popolo, gli Israeliti!». Mosè sente tutta la sua inadeguatezza, percepisce quanto è sproporzionata una tale missione, e obietta a Dio il gemito della sua fragilità: «Chi sono io per andare dal faraone e per far uscire dall’Egitto gli Israeliti?» La vocazione alla quale Dio lo chiama, lo mette in crisi fino alla radice della sua identità. Non obietta tanto quello che gli manca in quanto a forze e capacità, ma il sentimento dell’inconsistenza del suo «io», della piccolezza della sua persona, la miseria della sua identità: «Chi sono io?». Per compiere la missione di liberare il popolo che Dio gli vuole affidare, non gli mancano solo i mezzi: è lui stesso che viene meno, è la sua stessa persona che è inadeguata, che, in un certo senso, non c’è.
Dio allora non gli risponde: «Sta tranquillo, ce la farai, hai le qualità necessarie, abbi fiducia in te stesso!». Gli dice soltanto: «Io sarò con te!» (Es 3,12).
È come se Benedetto XVI avesse dato la stessa risposta ai Vescovi svizzeri riuniti presso di lui per essere confortati nella loro vocazione e missione di pastori del popolo, di un popolo del ventunesimo secolo che sembra sempre più soggetto alla perdita della libertà, che rinuncia alla libertà di pensare, agire, amare con verità. Gesù Cristo continua a mandare i suoi apostoli e i suoi discepoli verso l’uomo d’oggi, reso schiavo da poteri e ideologie ben più insidiosi del faraone d’Egitto; e chi è mandato prova sempre più acutamente lo smarrimento di Mosè, uno smarrimento che penetra la coscienza di se stessi: «Chi sono io? Chi sono io per poter compiere questa missione?».
Ecco allora che Pietro, oggi ancora, ricorda ai suoi fratelli, confermandoli nella fede, che l’unica risposta a questa domanda smarrita, l’unica risposta che consola e dà forza, è quella di Dio stesso: «Io sono con te!». Una risposta che nel Dio fatto uomo, morto per noi e risorto, è diventata ancora più decisa e coinvolgente, così come è diventata più universale la missione: «Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra. Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni […]. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo!» (Mt 28,18-20).
È questo: «Io sono con te!» di Dio, come risposta alla domanda sull’identità che deve avere il cristiano, sia esso pastore o semplice fedele, per adempiere la missione della Chiesa nella società di oggi, che risuona in tutte le parole che il Santo Padre ha rivolto ai Vescovi svizzeri.
È in questa luce che possiamo capire, e soprattutto accogliere, il forte e insistente richiamo alla preghiera che il Papa fa in questi discorsi. «È importante soprattutto curare il rapporto personale con Dio, con quel Dio che si è mostrato a noi in Cristo» (Discorso conclusivo).
Nelle situazioni e nei tempi in cui la missione della Chiesa si fa più difficile, in cui essa è più osteggiata, e in cui affiorano più evidenti i segni dell’umana fragilità e impotenza, la tentazione che insidia immancabilmente il cristiano, e spesso soprattutto i responsabili del gregge, è quella di dimenticare la presenza di Dio, la presenza del Risorto, di cui la Chiesa è segno e strumento. Si dimentica e si trascura il fatto che Dio rimane con noi. Si continua, questo sì!, come Mosè, a chiedersi: «Chi sono io? Chi siamo noi?», ma è come se non si riuscisse più ad ascoltare la risposta consolante di Dio: «Io sono con te!».
È ad ascoltare questa risposta di Dio, questa risposta essenziale, l’unica necessaria, che il Papa ha voluto richiamare i nostri Vescovi e noi tutti attraverso di loro. Perché questa risposta ci identifica, ci dà un’identità, è la risposta che permette all’uomo di capire chi è, quale è la sua natura, in che consiste il mistero del suo cuore. Solo se accoglie da Dio questa risposta alla domanda «chi sono io?» l’uomo diventa capace di dire «io», cioè di essere qualcuno, dentro la sua vita e la missione che è chiamato a compiere nella vocazione specifica che Dio gli dà.
Vale la pena allora di evidenziare i punti salienti nel richiamo del Santo Padre alla preghiera e la loro concatenazione.

All'origine: un invito totalmente gratuito

È utile rileggere un passo del Vangelo sul quale il Papa ha pronunciato la sua omelia in apertura della Visita ad limina.
«Un uomo diede una grande cena e fece molti inviti. All’ora della cena, mandò il suo servo a dire agli invitati: ‘Venite, è pronto’. Ma tutti, all’unanimità, cominciarono a scusarsi. Il primo disse: ‘Ho comprato un campo e devo andare a vederlo; ti prego, considerami giustificato’. Un altro disse: ‘Ho comprato cinque paia di buoi e vado a provarli; ti prego, considerami giustificato’. Un altro disse: ‘Ho preso moglie e perciò non posso venire’. Al suo ritorno il servo riferì tutto questo al padrone. Allora il padrone di casa, irritato, disse al servo: ‘Esci subito per le piazze e per le vie della città e conduci qui poveri, storpi, ciechi e zoppi’» (Lc 14,16-21).
Il primo aspetto che va sottolineato è che la preghiera come rapporto personale con Dio è sempre una risposta ad un’iniziativa gratuita del Signore. Tutto parte dall’iniziativa di Dio; è Lui che offre all’uomo il Suo desiderio di comunione, di amicizia. È in una totale gratuità che il padrone fa invitare i ricchi e i poveri. Nessuno degli invitati ha meritato questo invito. Stavano lavorando nel loro campo, facendo del commercio, arando con i loro buoi, stavano intrattenendosi con la loro sposa, oppure stavano mendicando sul ciglio della strada un pezzo di pane, mostrando le loro membra storpie, stavano avanzando a tentoni sulla strada perché erano ciechi, stavano magari maledicendo la vita perché erano malati e poveri, ed ecco che piomba su di loro un invito inatteso: il Signore, mediante il suo servo, dice loro: «Venite a cenare con me! Venite a vivere con me un tempo gratuito di amicizia, di comunione!».
Di fronte a questo invito inatteso e sorprendente, il vantaggio dei poveri e dei disgraziati, rispetto ai ricchi e ai potenti, è che non hanno niente da difendere di fronte alla gratuità dell’invito, e, nella condizione in cui si trovano, possono meglio di tutti misurare la sproporzione fra la loro condizione e il valore di ciò a cui sono invitati dal Signore.
È questa gratuità di Dio nell’offrire all’uomo lo spazio infinito della sua amicizia che non fallisce mai. Anche quando la sala che Dio vuole riempire di invitati rimane vuota, «Dio non fallisce», dice il Papa, perché «la sala vuota diventa un’opportunità per chiamare un maggior numero di persone. L’amore di Dio, l’invito di Dio, si allarga» (Omelia).
Lo spazio gratuito della comunione con Lui, Dio non lo chiude. Per questo la preghiera come rapporto personale col Signore è sempre possibile, può sempre essere ripresa e rinnovata.

Un invito disprezzato

Ma questa gratuità evidenzia la vera natura del rifiuto dell’uomo: il disprezzo di questa offerta. Nella parabola che il Papa ha commentato, tutti quelli che rifiutano l’invito alla cena, avanzano delle giustificazioni legate alla vita quotidiana di ogni essere umano: un campo, cinque paia di buoi, un matrimonio; dunque i beni che si hanno, il lavoro che si fa, le relazioni che definiscono un’esistenza.
Ora, bisogna notare che in questa parabola non si tratta della chiamata a seguire il Signore lasciando il proprio campo, il proprio lavoro, la propria famiglia per ricevere il centuplo e la vita eterna. Queste persone sono chiamate soltanto ad andare da quel signore per una cena festosa. Ma allora, il campo acquistato non può aspettare alcune ore prima di essere visto? I buoi non possono attendere un po’ prima di essere provati? La giovane donna che si è appena sposata non può restare sola per poche ore, quando si ha tutta la vita coniugale davanti a sé? Perché queste persone rifiutano l’invito? Le loro scuse non tengono; nessuna è urgente, nessuna è veramente un’alternativa al pasto offerto da questo signore.
La vera ragione del rifiuto è la poca importanza che questi invitati attribuiscono all’invito, e dunque all’uomo che li invita. Se non hanno paura di rifiutare, vuol dire che questo signore non ha nemmeno potere, non è un re o un padrone potente. Capiamo allora che la sola ragione per accettare il suo invito sarebbe stata la sua amicizia. Egli invita al banchetto solo per amicizia e per far crescere l’amicizia. È la sua amicizia che questi invitati rifiutano, è la sua amicizia che disprezzano.
Il Papa, nella sua omelia, fa notare che questo disprezzo dell’amicizia gratuita di Dio è in fondo la natura del peccato originale, e quindi il punto attraverso il quale Adamo ha lasciato entrare il male nella sua esistenza e in tutta la storia dell’umanità: «Adamo […] non era soddisfatto dell’amicizia con Dio; era troppo poco per lui, volendo essere lui stesso Dio. Considerò l’amicizia una dipendenza e si ritenne un dio, come se egli potesse esistere da sé soltanto».
Coloro che rifiutano l’invito al banchetto del Signore continuano a sprofondare in questa logica assurda, con la pretesa di «poter esistere da sé soltanto», di non aver bisogno di Dio e della sua amicizia per rendere più umana, più bella, più vera e lieta la loro vita di tutti i giorni.
Gli invitati che rifiutano l’amicizia di Dio per ragioni futili, descrivono allora perfettamente l’uomo d’oggi, l’uomo della società occidentale scristianizzata. Non si tratta forse più tanto di un rifiuto ragionato, motivato da altre convinzioni religiose o filosofiche. Si tratta piuttosto della perdita della consapevolezza del significato positivo che il rapporto con Dio può dare all’esistenza umana.
«Com’è possibile, si chiede Benedetto XVI ispirandosi a san Gregorio Magno, che un uomo dica ‘no’ a ciò che vi è di più grande; che non abbia tempo per ciò che è più importante; che chiuda in se stesso la propria esistenza?».
La risposta del Papa in un certo senso scagiona l’uomo d’oggi e ne descrive la povertà interiore: «In realtà, non hanno mai fatto l’esperienza di Dio; non hanno mai preso ‘gusto’ di Dio; non hanno mai sperimentato quanto sia delizioso essere ‘toccati’ da Dio! Manca loro questo ‘contatto’ – e con ciò il ‘gusto di Dio’».
La miseria dell’uomo d’oggi consiste nel rifiutare Dio senza conoscerlo. Gli invitati al banchetto che rifiutano l’invito per fare e vivere altro, sono così una parabola della nostra società in cui l’amicizia offerta dal Signore non riguarda più la realtà della vita quotidiana, non riguarda ciò che l’uomo possiede, il suo lavoro e la sua vita affettiva e familiare. Non lo riguarda nel senso che l’uomo non vede e non crede che l’amicizia col Signore possa avere un’influenza positiva sulla vita reale, possa essere una pienezza da gustare dentro la realtà quotidiana per renderla più umana e lieta.
Questa parabola descrive allora anche la natura della grande crisi della «cristianità occidentale», della Chiesa nei paesi europei e nordamericani, la grande crisi che ha svuotato le chiese, che ha reso formale e sterile la vita di tante parrocchie, che ha laicizzato tante istituzioni educative, assistenziali e culturali che la Chiesa in passato aveva creato e animato con grande generosità. La crisi non consiste anzitutto nel fatto che si pratica statisticamente di meno e «si fa» meno per la Chiesa. Ciò è una conseguenza. La crisi sta nel fatto che Gesù Cristo non è più percepito come qualcuno che salva la nostra vita reale, quotidiana. E se le chiese si svuotano, ciò dimostra forse che quando erano ancora piene, la crisi era già presente, perché già non si vedeva più come il fatto di partecipare alla Messa, di santificare la domenica, di partecipare a certi gesti della Chiesa, di appartenere alle associazioni cattoliche, potesse essere conveniente e vantaggioso per la vita reale dei fedeli, cioè potesse rendere la vita migliore, più intensa, più umana, più felice. Queste pratiche forse non erano già più vissute come esperienza e rinnovo dell’avvenimento di Cristo che salva la vita dell’uomo qui e ora.
Il Papa analizza questa situazione, ci aiuta a guardarla con verità. Ce la mostra così com’è dalle sue radici, come crisi non di strutture, ma di fede e di esperienza interiore, come fragilità del nostro cuore; una crisi che, poco o tanto, ci tocca tutti. Un passo dell’omelia descrive l’essenza di questa crisi come, potremmo dire, un’atrofia del cuore. Il cuore della crisi dell’uomo contemporaneo è la crisi del suo cuore, del cuore umano come capacità di amicizia con Dio: «Quando l’uomo è occupato interamente col suo mondo, con le cose materiali, con ciò che può fare, con tutto ciò che è fattibile e che gli porta successo, con tutto ciò che può produrre o comprendere da se stesso, allora la sua capacità di percezione nei confronti di Dio s’indebolisce, l’organo volto a Dio deperisce, diventa incapace di percepire ed insensibile. Egli non percepisce più il Divino, perché il corrispondente organo in lui si è inaridito, non si è più sviluppato. Quando utilizza troppo tutti gli altri organi, quelli empirici, allora può accadere che proprio il senso di Dio si appiattisca; che questo organo muoia; e che l’uomo, come dice san Gregorio, non percepisca più lo sguardo di Dio, l’essere guardato da Lui – questa cosa preziosa che è il fatto che il suo sguardo mi tocchi!» (Omelia).
L’uomo contemporaneo ha come perso il gusto di Dio, e perdendo questo gusto, perde la dimensione più profonda di se stesso, perde il cuore, il cuore assetato di vedere il Volto di Dio, di fissare il Suo sguardo.

La via del rinnovamento: ripartire dall'esperienta di Dio

Come uscire da questa crisi in cui l’uomo sembra auto-immunizzarsi dall’esperienza di Dio che sola può rinnovare il cuore e l’umanità?
Benedetto XVI propone una via in fondo molto semplice, fondandosi su un giudizio che non censura la fragilità e il peccato dell’uomo: non possiamo ripartire da noi stessi, da quello che siamo o facciamo noi, da quello che pensiamo noi, dalle nostre buone intenzioni e dai nostri sentimenti. Dobbiamo ripartire da Dio, e ripartire da Dio come Lui riparte sempre dopo ogni fallimento della sua opera di salvezza gratuita.
«Dio non fallisce», ci annuncia Benedetto XVI. Non fallisce perché ricomincia sempre ad amare l’uomo. È necessario ripartire da Lui e ripartire come riparte Lui, ripartire da Lui che rinnova, approfondisce e dilata sempre di nuovo l’offerta del suo amore, della sua amicizia. E più la gratuità divina si esprime e si manifesta di fronte al rifiuto e al disprezzo dell’uomo, e più l’uomo è chiamato a diventare gratuito nell’accogliere questa gratuità. La gratuità dell’uomo di fronte alla gratuità di Dio consiste nel non volerla meritare, nell’accoglierla con povertà, nell’accoglierla con la consapevolezza della propria miseria.
Per questo è coi cuori poveri che Dio può ricominciare, che può recuperare il fallimento dei suoi inviti alla comunione con Lui. Dio ricomincia dai più miseri, perché Dio ricomincia sempre dalla sua misericordia ed è con la sua misericordia che recupera tutto. È infatti la misericordia di Dio che non fallisce mai, la misericordia che si è manifestata totalmente in Cristo crocefisso. In Lui, veramente il Dio che fallisce per il rifiuto degli uomini, vince nell’amore che redime. «Per mezzo della croce di Cristo, Dio si è avvicinato alle genti, è uscito da Israele ed è diventato il Dio del mondo. […] Il Dio che aveva ‘fallito’, ora, attraverso il suo amore, porta davvero l’uomo a piegare le ginocchia, e così vince il mondo con il suo amore» (Omelia).
La misericordia di Dio trasforma così il significato del vuoto creato dal rifiuto dell’uomo. «La sala vuota diventa un’opportunità per chiamare un maggior numero di persone. L’amore di Dio, l’invito di Dio si allarga. […] Egli invita coloro che non possiedono nulla; che hanno davvero fame, che non possono invitarlo, che non possono dargli nulla» (Omelia).
Sì, ribadisce il Papa, «Dio non fallisce. ‘Fallisce’ continuamente, ma proprio per questo non fallisce, perché ne trae nuove opportunità di misericordia più grande, e la sua fantasia è inesauribile. Non fallisce perché trova sempre nuovi modi per raggiungere gli uomini e per aprire di più la sua grande casa, affinché si riempia del tutto. Non fallisce perché non si sottrae alla prospettiva di sollecitare gli uomini perché vengano a sedersi alla sua mensa, a prendere il cibo dei poveri, nel quale viene offerto il dono prezioso, Dio stesso. Dio non fallisce, nemmeno oggi. Anche se sperimentiamo tanti ‘no’, possiamo esserne certi. Da tutta questa storia di Dio, a partire da Adamo, possiamo concludere: Egli non fallisce. Anche oggi troverà nuove vie per chiamare gli uomini e vuole avere con sé noi come suoi messaggeri e suoi servitori».
Ci si lamenta molto della situazione delle nostre Chiese. Il vuoto che si crea rattrista e deprime. Il Papa ci invita ad alzare lo sguardo, ad avere uno sguardo di fede, memore del Signore e di come Lui sempre ha agito. Siamo come il popolo d’Israele nel deserto: dimentichiamo le meraviglie del Signore, e per questo non ripartiamo dalla fiducia in Lui, impantanandoci nella fiducia in noi stessi e quindi nella delusione. Benedetto XVI invece ci invita a guardare proprio il vuoto che ci deprime come spazio della speranza, e a viverlo come tale. Come? Con la preghiera, riempiendolo di rapporto con Dio, di esperienza di Dio. Non è forse questo che ha sempre fatto e vissuto Gesù, costantemente confrontato al rifiuto e alla chiusura degli uomini, quando pregava nel deserto e nella notte, fino al deserto interiore del Getsemani e la notte della Croce?
Allora, tutta la responsabilità e l’impegno della nostra libertà, ecco che il Papa li concentra nella nostra scelta di starci al rapporto personale col Signore. È questo che riempie le nostre sale vuote, come per dirci che non è anzitutto il numero di persone che determina la vitalità della Chiesa, ma l’accoglienza della presenza del Signore. Sembra di risentire Gesù quando dice ai discepoli: «In verità vi dico: se due di voi sopra la terra si accorderanno per domandare qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli ve la concederà. Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro» (Mt 18,19-20).
Sì, possiamo rimanere in pochi, pochissimi; il problema non è il numero, ma che quei pochi rimangano uniti nella preghiera, nel nome di Gesù; che il rapporto personale con Dio in Cristo colmi il vuoto, la pochezza e la fragilità delle nostre comunità e delle nostre persone.
L’insistenza di Benedetto XVI sulla preghiera è essenzialmente un’insistenza sulla centralità di Dio come «soluzione» sempre possibile del male dell’uomo e del mondo. Il Papa non insiste su una pratica, ma sul rapporto con una Persona. Infatti, quando il mondo va male, quando l’uomo va male, quando anche la Chiesa sembra in crisi, ciò che ci manca non è anzitutto qualcosa, non è neanche un miglior programma, ma Dio stesso. Ci manca il Signore. Ci manca Cristo.
L’attivismo, anche e soprattutto quello ecclesiastico, è la dimenticanza di questo. «Anche noi corriamo un pericolo, avverte il Papa: Si può fare molto, tanto nel campo ecclesiastico, tutto per Dio…, e in ciò rimanere totalmente presso se stessi, senza incontrare Dio» (Omelia).
Mettere Dio al centro vuol dire anzitutto coltivare ed esprimere la coscienza che Lui ci è indispensabile, che senza di Lui non possiamo far nulla (cfr. Gv 15,5). Allora la preghiera è come il respiro di quest’aria, l’espressione più adeguata alla sola risposta che può soddisfare il nostro bisogno: la presenza del Dio vivo che ci salva.
«Si tratta della centralità di Dio – conclude il Santo Padre nella sua omelia – e precisamente non di un dio qualunque, bensì del Dio che ha il volto di Gesù Cristo. Questo, oggi, è importante. Ci sono tanti problemi che si possono elencare, che devono essere risolti, ma che – tutti – non vengono risolti se Dio non viene messo al centro, se Dio non diventa nuovamente visibile nel mondo, se non diventa determinante nella nostra vita e se non entra anche attraverso di noi in modo determinante nel mondo. In questo, ritengo, si decide oggi il destino del mondo in questa situazione drammatica: se Dio – il Dio di Gesù Cristo – c’è e viene riconosciuto come tale, o se scompare. Noi ci preoccupiamo che sia presente. Che cosa dovremmo fare? In ultima istanza? Ci rivolgiamo a Lui!».

Imparare e insegnare a pregare

Il Papa sembra allora non lasciare ai Vescovi e a tutti i fedeli che una consegna prioritaria: quella di imparare a pregare. Imparare a pregare per poter insegnare a pregare, per trasmettere, non certo lezioni di preghiera, ma l’esperienza del rapporto vivo col Signore come sostanza e pienezza del cristianesimo. È la grande insistenza del Discorso conclusivo della Visita ad limina. Il Papa richiama a non più disperdere energie nelle discussioni «su molteplici particolari meno importanti», perché così si entra nel gioco di chi vuole ridurre la Chiesa ad un’istituzione tesa soltanto ad affermare «alcuni comandamenti e divieti». La Chiesa non è nel mondo per propugnare una morale, o una filosofia, ma per incarnare e annunciare l’avvenimento di un Dio fattosi uomo, morto e risorto per salvarci, e che rimane con noi vivo fino alla fine del mondo. È questa «la grandezza della nostra fede». La grandezza della fede cristiana è l’esperienza possibile a tutti dell’avvenimento di Cristo.
È su questa convinzione che Benedetto XVI fonda l’importanza pastorale e missionaria dell’esperienza della preghiera. Non si tratta anzitutto di pregare affinché l’avvenimento cristiano si affermi e si diffonda, ma per farne l’esperienza personale, perché esso sia un avvenimento nella nostra vita. La missione della Chiesa non consiste principalmente in qualcosa da fare, ma nell’essere un soggetto nuovo, un soggetto coinvolto nell’avvenimento di Gesù Cristo.
Come si impara allora a pregare?
Si impara a pregare come si approfondisce un rapporto di amicizia. E questo avviene intensificando sempre più il legame di parola e di amore fra le persone. Il rapporto si approfondisce dialogando, dove il dialogo è sempre un alternarsi e uno scambio di ascolto e parola, di silenzio che ascolta e di parola che confida. Ma perché il colloquio non rimanga un superficiale confronto di idee e pensieri, il dialogo deve approfondire lo scambio di amore, cioè l’attenzione del cuore e il dono di sé all’altro. È così che la preghiera si impara sempre di più, come lo chiede il Papa: approfondendo il colloquio e lo scambio di amore con Dio.
Questo metodo non è un’invenzione dell’uomo, ma è dettato dalla natura stessa di Dio. Il Papa ci ricorda infatti che, come lo sottolinea sant’Agostino, Dio è Logos e Amor. Dio è Parola e Amore, e per questo il rapporto con Lui non può essere che colloquio d’amore. La preghiera è dialogo d’amore con Dio. Dentro questo dialogo c’è allora spazio per tutte le forme di preghiera: il silenzio, l’ascolto, l’adorazione, la supplica, la lode, la festa…
La natura di Dio detta la natura del nostro rapporto con Lui. In Cristo, Dio si è fatto conoscere dall’uomo come Logos e Amor totalmente rivelati e donati. Per questo la preghiera cristiana ha un’originalità insuperabile. Non ci può essere rapporto più stretto con Dio che la preghiera cristiana, perché Dio – in Gesù Cristo – si è reso totalmente accessibile alla capacità di relazione che Egli stesso ha messo nel cuore di ogni essere umano. «L’ultima e vera grandezza della nostra concezione di Dio» scrive il Papa, è Cristo, il Logos divino che «ha un cuore, tanto da poter rinunciare alla propria immensità e farsi carne». Per questo la preghiera come rapporto d’amore con Lui coincide con la grandezza del cristianesimo.
Questo, il Santo Padre lo richiama evidentemente a noi cristiani, e lo fa anche per scuoterci dalla distrazione e dalla negligenza con cui spesso viviamo la nostra fede. La superficialità nel vivere il cristianesimo sta soprattutto nel trascurare il tesoro della preghiera, del rapporto personale con Dio così come ci è offerto gratuitamente nel Verbo incarnato. La preghiera non è soltanto una pratica funzionale ad altro, non è soltanto una soluzione di ripiego, di emergenza, per far intervenire Dio là dove l’uomo si sente impotente. La preghiera è il cuore e il centro dell’esperienza cristiana. Senza questo cuore, tutta l’esperienza cristiana diventa futile, vuota di senso e di sostanza, e tutti i problemi che sorgono nella comunità cristiana, anche se reali, anche se gravi, sono affrontati con superficialità. «Questo intimo essere con Dio – richiama ancora il Papa – e quindi l’esperienza della presenza di Dio è ciò che sempre di nuovo ci fa, per così dire, sperimentare la grandezza del cristianesimo e ci aiuta poi anche ad attraversare tutte le piccolezze, tra le quali, certamente, esso deve poi essere vissuto e – giorno per giorno, soffrendo ed amando, nella gioia e nella tristezza – essere realizzato» (Discorso conclusivo).
La vita delle comunità, la liturgia, l’educazione cristiana, tutto ci è dato affinché l’incontro con Cristo diventi esperienza e vita. Il Concilio infatti ci ha ricordato che la natura stessa della Chiesa è di essere «il sacramento, ossia il segno e lo strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano» (Lumen gentium, 1). Così, se l’esperienza dell’«intima unione con Dio» non diventa personale, esperienza del cuore, è come se tutta la vita ecclesiale di una persona, o di un’intera comunità, si svuotasse del suo significato e diventasse sterile.
Contro questa superficialità il Papa domanda allora un lavoro. Lo domanda anzitutto ai pastori, affinché i fedeli possano seguirli e diventare a loro volta testimoni di un’esperienza di Dio sempre possibile: «È un compito fondamentale della pastorale, insegnare a pregare ed impararlo personalmente sempre di più. Esistono oggi scuole di preghiera, i gruppi di preghiera; si vede che la gente lo desidera. Molti cercano la meditazione da qualche parte altrove, perché pensano di non poter trovare nel cristianesimo la dimensione spirituale. Noi dobbiamo mostrare loro di nuovo che questa dimensione spirituale non solo esiste, ma che è la fonte di tutto» (Discorso conclusivo).
Il Papa parla di imparare e insegnare, di curare e mostrare l’esperienza del rapporto personale con Dio. E questo lo porta a parlare di «scuole di preghiera». Se la preghiera è una dimensione dimenticata e trascurata, abbiamo bisogno di essere educati, rieducati, ad essa. È un bisogno che la gente sente ed esprime, così come può, ma che spesso non trova nella Chiesa un aiuto, una risposta. È necessario allora che il rapporto vivo con Dio possa di nuovo essere «incontrato» in persone e comunità, in luoghi e tempi, perché l’esperienza si comunica se in un modo o nell’altro si è toccati da essa, si può entrare in essa. «A questo scopo – propone Benedetto XVI – dobbiamo moltiplicare tali scuole di preghiera, del pregare insieme, dove si può imparare la preghiera personale in tutte le sue dimensioni: come silenzioso ascolto di Dio, come ascolto che penetra nella sua Parola, penetra nel Suo silenzio, sonda il Suo operare nella storia e nella mia persona; comprendere anche il Suo linguaggio nella mia vita e poi imparare a rispondere nel pregare con le grandi preghiere dei Salmi dell’Antico e del Nuovo Testamento. Da noi stessi non abbiamo le parole per Dio, ma ci sono state donate delle parole: lo Spirito Santo stesso ha già formulato parole di preghiera per noi; possiamo entrarci, pregare con esse e così imparare poi anche la preghiera personale, sempre di più ‘imparare’ Dio e così divenire certi di Lui, anche se tace – diventare lieti in Dio» (Discorso conclusivo).
Una scuola d’altronde è già in funzione, da sempre: la scuola della Liturgia. Se si vivesse la Liturgia per imparare a pregare, quanti abusi liturgici svanirebbero in un istante! Essa infatti sarebbe vissuta con l’umile attenzione del desiderio di imparare, di ascoltare, di domandare, di seguire la Chiesa che da due millenni prende i suoi figli per mano, e se necessario in braccio, per insegnare loro il colloquio col Dio che è Parola e Amore. Si scoprirebbe allora che si impara solo dalla bellezza e dalla verità. Sì, la Liturgia è «scuola, appunto, di preghiera, nella quale il Signore stesso ci insegna a pregare, nella quale preghiamo con la Chiesa, sia nella celebrazione semplice ed umile con solo pochi fedeli, sia anche nella festa della fede» (Discorso conclusivo).

Per un cristianesimo lieto: la speranza

Certo, una tale «rete scolastica» adeguata e sufficiente non si improvvisa. Ma il Santo Padre ci aiuta almeno a capire che essa è una priorità, che tutti gli altri interventi per rinnovare un tessuto cristiano, cioè pienamente umano, nella società attuale non possono essere che conseguenza di questo lavoro di «irrigazione» spirituale. Perché è da lì che rinasce un cristianesimo lieto, di uomini e donne «lieti in Dio», e non scontenti di tutto e di tutti, rivendicativi senza essere veramente propositivi, e quindi sterili nel trasmettere al mondo la grandezza e bellezza dell’incontro con Cristo.
In questi discorsi si percepisce con nettezza che quello che Benedetto XVI ha offerto ai Vescovi svizzeri non è altro che una testimonianza personale, frutto dell’esperienza di tutta una vita consacrata ad amare Cristo e la sua Chiesa. Si capisce così, leggendo questi discorsi, qual è il segreto della letizia e della pace con cui il Santo Padre guida la barca della Chiesa oggi, in mezzo a flutti e scogli che dovrebbero spaventarlo, tentarlo a fuggire. Invece, Pietro oggi, come duemila anni fa, si lascia raggiungere dalla calda voce del Signore: «Coraggio, sono io, non abbiate paura!» (Mt 14,27). Ed è come se ci testimoniasse che è appunto nella preghiera che questa voce lo raggiunge, per la pace e la letizia del suo cuore e il conforto dei suoi fratelli Vescovi e di tutto il popolo.
Ma il vero nome di questa letizia è la speranza. Ce lo ricorda ancora il Papa rifacendosi a san Tommaso d’Aquino che «identifica, per così dire, la speranza con la preghiera. […] La preghiera è speranza in atto. E, di fatto, nella preghiera si schiude la vera ragione, per cui ci è possibile sperare: Noi possiamo entrare in contatto con il Signore del mondo, Egli ci ascolta e noi possiamo ascoltare Lui. […] La cosa veramente grande nel Cristianesimo, che non dispensa dalle cose piccole e quotidiane, ma che non deve neanche essere coperta da esse, è questo poter entrare in contatto con Dio» (Discorso conclusivo).
Il frutto della preghiera che veramente incontra il Signore del mondo è l’uomo che vive sperando. La speranza è la virtù che cambia tutto, perché cambia la posizione del cuore di fronte a tutto. Il frutto della preghiera è l’uomo che vive confidando in Dio, perché è certo dell’amicizia di Dio. È questa conversione del cuore alla speranza che cambia tutto, perché la speranza affida ogni cosa all’Onnipotente.
Pensiamo ancora una volta alla parabola del banchetto commentata dal Papa nell’omelia ai Vescovi svizzeri. Cosa è cambiato nella vita dei poveri, degli storpi, dei ciechi e degli zoppi che hanno accettato l’invito al banchetto? Apparentemente, nulla. Alla fine del pasto, a parte il fatto che hanno per una volta mangiato a sazietà, sono ritornati alla loro vita, poveri, storpi, ciechi e zoppi come erano prima di andarci. Ma hanno accolto l’amicizia del Signore, ed è in quanto amici suoi che hanno potuto continuare la loro vita ordinaria, pur miserabile. Ciò non ha cambiato niente; eppure ciò ha cambiato tutto. Hanno potuto vivere con una coscienza nuova di loro stessi e delle loro miserie. Hanno potuto vivere con la coscienza di essere amati e di avere valore agli occhi del Signore che li aveva invitati e aveva mangiato, bevuto e conversato con loro. E le loro miserie e difficoltà diventavano paradossalmente una messa in evidenza del suo amore, una sottolineatura della sua amicizia. Per loro, affermare che il Signore era un amico, la persona più cara al mondo, era un’evidenza e un’esperienza permanente del cuore che non trovava, né in loro stessi né negli altri, alcuna possibilità di contestazione o di dubbio.
La missione evangelizzatrice della Chiesa passa attraverso delle persone così, delle persone la cui gioia è il rapporto personale con Cristo. Poco importa allora se sono miseri e peccatori, come Zaccheo, come la Samaritana, o come gli stessi Apostoli. L’importante non è di essere soggetti migliori, ma soggetti toccati dall’amicizia con Cristo, soggetti che, per riprendere una frase di san Benedetto cara al Papa, cercano di «non preferire nulla all’amore di Cristo» (Regola 4,21), cioè persone per le quali l’amicizia di Gesù è tutto. San Pietro ha rinnegato Gesù, ma nemmeno per un istante il suo cuore ha potuto disprezzare l’amicizia di Cristo.
Oggi, Pietro ci ha parlato di nuovo e in fondo non ha fatto che riecheggiare l’unica esigenza che il Risorto gli ha posto per essere un pastore degno di Lui e fecondo per l’umanità: «Simone di Giovanni, mi ami tu?» (Gv 21,15).
La preghiera è il desiderio di rispondere sempre di «sì» a questa domanda del Signore.